my space you tube

PLAY22SETTEMBRE

facebook twitter my space you tube

Guillaume Tell

Rossini Opera Festival 2013
di Gioachino Rossini

ROSSINI OPERA FESTIVAL 2013
Pesaro, Adriatic Arena.

Questo testo si concentra prevalentemente sugli aspetti della messa in scena, della regia e della direzione musicale, piuttosto che sulle singole performances dei ruoli principali. Va sottolineato, però, che l'elevato standard tecnico-vocale e attoriale di tutti gli interpreti ci lascia semplicemente ammirati. Assolutamente degne di nota le prestazioni di Marina REBEKA (Mathilde), Juan Diego FLÓREZ (Arnold), Nicola ALAIMO (Tell).

Partiamo dall'ouverture.

L'introduzione con i violoncelli. La melodia magnifica dei violoncelli e delle viole accompagnate dal resto degli archi inframmezzata qua e là da turbolenze dei timpani. La transizione con i cinguettii dei fiati e i ronzii degli archi porta ad una prima esplosione dell'orchestra. Segue l'altra bellissima melodia, questa volta protagonisti i legni, accompagnati dagli archi pizzicati. Tutto meraviglioso, i tempi giusti, la pronuncia, l'articolazione; un'orchestra sicuramente di ottimo livello, sia i singoli musicisti, sia l'insieme. Merito anche del direttore concertatore, Il M° Michele Mariotti. C'è corrispondenza; c'è intesa. La poltrona ci accoglie... si preannuncia uno spettacolo memorabile.

Ecco la famosa cavalcata! Una luce bianca sale gradualmente e ci apre alla storia.

L'impianto scenico è estremamente essenziale; un bianco alcionio vi domina. Una scritta campeggia in alto, sulla parete di destra: “EX TERRA OMNIA”, “tutte le cose vengono dalla terra”. Una prospettiva angolare a due punti di fuga buca la quarta parete e va a configgersi sul soffitto al centro della platea. Due americane ne seguono le linee e convergono anch'esse al centro del soffitto, proprio sopra al pubblico. Gli ambienti sono ricavati attraverso fessure, spiragli, aperture; vani rettangolari con linee che si dirigono rigorosamente verso i punti di fuga.

Tutto è armonioso; tutto è semplice ed elegante – grazie anche al progetto luci di Giuseppe Di Iorio.

Ciò che sorprende sempre, in una regia di Graham Vick, è la sua capacità di traslazione temporale. È come se avesse a disposizione una “macchina del tempo”! Avete presente, quei marchingegni pieni di leve, ruote, ingranaggi, cui ci ha abituato certa letteratura fantascientifica a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il regista inglese ha il talento – raro! – di trasportare i contenuti di un melodramma (testo e musica) da un'epoca all'altra senza distorsioni inaccettabili o iconoclastie insopportabili, come avviene per altri registi nel circuito internazionale. Sembra quasi che faccia esercizi di equilibrismo per tenere sempre sulla corda la tensione. Si percepisce una mano molto sicura. Che ha esperito molto e che adesso raccoglie i frutti.

Nell'allestimento del Mosè in Egitto del 2011 aveva trasportato le vicende dell'eroe biblico nel Terzo Millennio!

(vedi https://www.play22settembre.it/joomla/recensioni/mose-in-egitto).

Questa volta la sua prodigiosa “macchina” ha trasferito i fatti e i personaggi della leggenda svizzera dal XIV all'alba del XX Secolo.

Certo, alcune voci di detrattori si sentono qua e là, ma appaiono generalmente come fisiologiche, e sono, sempre, invariabilmente, sepolte da ovazioni, applausi scroscianti, e altre manifestazioni di un gradimento totale.

In questo allestimento anche il sipario diventa veicolo di messaggi. L'ostensione di un pugno chiuso (bianco) su campo rosso ci accoglie e ci introduce al clima storico-culturale dello spettacolo.

Il tema del popolo oppresso è evidentemente un tema congeniale al nostro regista; viene accostato qui, sorprendentemente, alle incarnazioni storiche del socialismo reale. Per tutta l'opera – quattro atti, cinque ore! – si respira l'aria della rivoluzione, della rivoluzione d'ottobre! Diversi elementi della messa in scena sembrano orientarci verso questa direzione: bandiere rosse, iscrizioni vergate con vernice rossa; gli oggetti di scena: macchine da presa manifestamente da cinema delle origini; e i costumi, che richiamano l'iconografia della Russia agli inizi del Novecento; non a caso, una terra dove sono nate le prime teorie sulla Settima Arte – rimarchevole il lavoro operato da Paul Brown. Il ruolo giocato dal cinema in questo allestimento del Tell rossiniano è molto importante e, in parte, anche dichiarato. Nella conferenza stampa Vick ha citato, tra le sue fonti di ispirazione, due opere cinematografiche: "Novecento" di Bernardo Bertolucci e "L'albero degli zoccoli" di Ermanno Olmi.

Due dolly dotati di macchine da presa si muovono continuamente ai fianchi del proscenio, e continueranno a farlo per tutta la durata dell'opera. Presenza inquietante, epifania del potere. Una splendida soluzione che arricchisce e complica ulteriormente i modi di fruizione.

Le macchine da presa sono manovrate dai soldati. Appaiono come uno strumento per la celebrazione del potere, ma anche uno strumento di oppressione e di controllo.

Alla fine un autentico pezzo di cinema sulla scena! Proiettato sulla scena con un rapporto d'aspetto in 4:3 ciò che è il ricordo di Arnold quando, bambino, grazie all'insegnamento del padre contadino, impara ad amare la terra. Immagino che ci sia stata una mini produzione, un piano di lavorazione, delle riprese, un montaggio! Un'inserto nel corpo dell'opera! Un omaggio al cinema, al cinema delle origini! Ma è anche, a mio modo di vedere, un tentativo di compenetrazione tra le due arti, l'opera e il cinema, appartenenti a due epoche diverse, l'epoca dell'aura e l'epoca della riproducibilità tecnica, secondo la fondamentale distinzione operata da Walter Benjamin nel secolo scorso. Prove tecniche di integrazione, si direbbe. Il cinema è ancora giovane. Ha da poco superato i cento anni. Chissà cosa ci riserverà il futuro...

Le coreografie sono molto curate ed estremamente originali. I danzatori sono molto bravi. Si riconosce, qua e là, la lezione dell'indimenticata Pina Bausch, che Ron Howell, il coreografo, ha saputo raccogliere.

I cori sono una totale delizia in/per tutti i sensi. E Mariotti li ripropone tutti, forte anche della continuità con il Teatro Comunale di Bologna e con Andrea Faidutti, maestro del coro.

Nel finale un triangolo si ritaglia dal soffitto e scende lentamente giù, verso il palcoscenico, mentre le triadi dei corni e delle arpe cominciano a diffondersi per tutta la sala. E' una scala. Rossa. Il figlio ascende! Immagine potentissima! Bandiere rosse sventolano al grido “Liberté”. Del tutto inaspettatamente, un pubblico di una moderna sala cinematografica (mi sorprenderebbe se non lo fosse) è comparso sul fondo della scena e assiste allo spettacolo, proprio come stiamo facendo noi... ma... un momento... siamo proprio noi, specchio di noi stessi! Ecco che i piani percettivi si moltiplicano, con una logica combinatoria. E su tutto questo la musica del genio pesarese, ingravidata di significati sempre nuovi. Vertiginoso!

Donato DI PASQUALE © 2013

Recensioni