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Mosè in Egitto

Rossini Opera Festival 2011
di Gioachino Rossini

ROSSINI OPERA FESTIVAL 2011
Pesaro, Adriatic Arena, 11 agosto 2011, prima.

Le luci di sala sono ancora accese. L'orchestra converge sinuosamente sul polo magnetico dei 440 Hertz, come un enorme animale che assume lentamente la posizione di riposo, prima di liberare tutta l'energia di cui dispone.

Le luci si spengono. L'opera ha inizio. Nella penombra figure dolenti si aggirano tra il pubblico, mostrando foto di congiunti dispersi. Poco dopo vediamo soldati egiziani, con la divisa nera, che attraversano di corsa la platea, seguendo linee ortogonali.

All'improvviso le luci si accendono generosamente sulla scena. Questa è realizzata su più piani, attraversati e sostenuti da colonne e da una lunga scala ricurva. Ai piani superiori vivono e operano gli egiziani; agli inferi(ori) gli ebrei. Gli egiziani indossano la kefiah, gli ebrei lunghi caffettani. Mosè, in particolare, ha una lunga barba scura e un giubbotto militare: troppo simile al re-del-terrore-Bin-Laden per essere una coincidenza. Scopriamo dunque, a poco a poco, la sottile operazione esegetica proposta dal regista Graham Vick: egli ha identificato gli antichi ebrei con gli odierni palestinesi, gli antichi egiziani con gli odierni israeliani! Questa non sarà l'unica sorprendente metafora dell'opera, ma sembra esserne la principale: l'idea d'impianto del lavoro del regista inglese sul Mosè.

Visto che esistono due stesure e ben quattro versioni realizzate dal Maestro pesarese sullo stesso tema (Napoli 1818, 1819; Parigi, 1827; di nuovo Napoli 1829) occorre subito dire che questa cui abbiamo assistito – in prima al ROF 2011 – è la versione che andò in scena a Napoli nel marzo del 1819, con l'aggiunta della famosa preghiera “Dal tuo stellato soglio”.

Nel corso dell'opera troveremo altri segni, altrettanto inequivocabili, di una contemporaneità molto prossima e quindi altrettanto dolorosa, sia pure con un carattere più episodico: vedremo prigionieri ebrei portati al guinzaglio come cani, a ricordarci le atrocità commesse a Guantanamo e ad Abu Ghraib; vedremo i primogeniti egiziani soffocati col gas, a ricordarci gli episodi del teatro Dubrovka di Mosca nel 2002 e della scuola di Beslan nel 2004; vedremo ebrei con cinture lampeggianti, a ricordarci kamikaze carichi di esplosivo.

Tutto questo ha suscitato reazioni molto contrastanti nel pubblico. In particolare alla fine del secondo atto, ho sentito chiaramente alla mia destra un signore gridare: “Vergogna!”. Una voce che ha spaccato in due l'uditorio. Discussioni, insulti, epiteti, tra gli ammiratori e i detrattori di Vick: quasi un principio di rivolta! Le forze dell'ordine sono dovute intervenire per ricostituire la calma. Evidentemente riferimenti così espliciti all'attualità e ai micidiali attentati terroristici degli ultimi dieci anni, sono fatti ancora troppo recenti per essere storicizzati.

La cosiddetta società occidentale è probabilmente ancora nella fase dell'elaborazione del lutto e non ha ancora in sé la giusta distanza prospettica per darne una lettura oggettiva. Nonostante gli alterchi, gli applausi sono venuti giù copiosi e irrefrenabili, accompagnati dal rumore fondo del battito dei piedi degli spettatori sul loggione. Ciò a testimoniare il gradimento incondizionato, da parte del pubblico, degli interpreti musicali dell'opera. Quella che segue è la mia personale pagella: il direttore, ottimo; l'orchestra, ottima; il coro, ottimo; i solisti, eccellenti (straordinari il Faraone di Alex ESPOSITO e l'Elcia di Sonia GANASSI).

Tuttavia il clima di tensione si è sentito ancora a lungo nella sala. Poliziotti in divisa sono nuovamente intervenuti per sedare altri focolai di protesta. Ancora un plauso va a Roberto ABBADO, il direttore d'orchestra, che ha avuto il sangue freddo di attendere un tempo lunghissimo prima di attaccare il terzo ed ultimo atto. Egli ha atteso, immobile, fino all'estinzione del benché minimo rumore in sala, a garanzia del massimo silenzio per la ripresa.

Il terzo atto è stato uno splendore. Un crescendo di emozioni sia dal punto di vista scenico che musicale. Il Mar Rosso è stato sostituito da un muro, che evoca immediatamente quello del Pianto a Gerusalemme o la barriera di Gaza. Ma il muro è una metafora molto forte. Quanti muri, fisici, politici, sociali, psicologici, si erigono ancora oggi! Gli ebrei, inseguiti dagli egiziani, fuggono attraverso un varco, guadagnano la libertà. Il varco si allarga e compare qualcosa di indefinito che blocca i persecutori. Le luci, opportunamente utilizzate, ci rivelano che si tratta di un carro armato [sic!] con la bandiera israeliana. Un guizzo finale fuor di metafora! Un soldato israeliano esce dalla torretta, si dirige verso il centro della scena, dove lo attende un bimbo kamikaze. Egli distende il braccio verso il bimbo. Ha in mano qualcosa, sembra una pistola. Si avvicina lentamente, ma non sembra avere intenzioni ostili. Finalmente scopriamo che il soldato sta porgendo al bimbo una barretta di cioccolato. Il bimbo esita un po', ma alla fine la prende. Molto commovente.

Sicuramente meritano un elogio anche Stuart Nunn che ha realizzato le scene e i costumi, e Giuseppe Di Iorio che ha disegnato le luci.

Il regista fin dalle prova generale è stato accusato di antisemitismo, da più parti. Soprattutto per via dell'identificazione di Mosè con Osama Bin Laden; ma la sua, piuttosto, sembra essere una posizione contro tutti i fondamentalismi religiosi. Sentiamo a questo proposito le sue stesse parole durante la conferenza stampa: “Non ho nessuna intenzione di provocare o fare arrabbiare qualcuno – spiega Vick –, ho solo cercato di presentare tutti i punti di vista in modo equilibrato e con molte metafore per mettere l’accento sul fatto che in ogni religione ciascuno pensa di avere Dio dalla propria parte mentre le azioni fatte in nome di Dio, in realtà sono fatte dagli uomini”. Io non credo che l'antisemitismo appartenga a Vick. Egli, infatti, nel 1997 aveva allestito per il ROF Moïse et Pharaon – la stesura parigina dell'opera – in cui si può dire che l'intero allestimento era da intendersi come un omaggio al popolo ebreo e alle sue immani sofferenze durante l'Olocausto. “Ma questo – ribadisce il regista – avveniva nel secolo scorso. Riaffrontando questo titolo di contenuto biblico, ho sentito la necessità di guardare a cosa è successo negli ultimi dieci anni in Medio Oriente e a cosa sta succedendo ancora […] Rabbia, distruzione, vendetta. Tutto nel nome di dio”.

Donato DI PASQUALE © 2011

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